THE EXCELLENCE OF ITALY
Ottobre 5, 2014Who Are The Devils These Days?
Ottobre 5, 2014Sirio Tofanari ( Firenze 1886 – Milano 1969) è noto come lo scultore degli animali, sin da bambino seppe cogliere la tensione del movimento selvaggio, la forza e il dolore della loro intrinseca natura riproducendoli con straordinaria maestria plastica. Le sue opere vennero esposte alla mostra di Faenza del 1908, dove il Re d’Italia acquistò una sua gazzella in bronzo. Dal 1909 al 1936 prese parte a quasi tutte le Biennali di Venezia e nel 1925 partecipò con una personale alla III Biennale Romana d’Arte. Con speciale decreto del Presidente della Repubblica Italiana,nel 1949,fu nominato Docente in Scultura all’ Accademia Nazionale di S.Luca.
La nipote Sandra Tofanari, in un viaggio personale a ritroso nel tempo, ci accompagna in un mosaico di ricordi, a conoscere la dimensione umana nella quotidianità di questo grande artista italiano.
Gazzella, 1938
L’odore della plastilina ricorre molto spesso nei miei ricordi infantili, ma non è mai stato né troppo forte, né troppo frequente da essere fastidioso, perché lui, oltre a essere molto rapido nella modellazione, aveva sempre cura di lavarselo via dalle mani con la soda ogni volta che interrompeva il lavoro.
La plastilina è una materia grassa e grigia, che lui, in tempo di guerra si preparava da sé, secondo una vecchia ricetta con cui otteneva un impasto ancora più puzzolente.
“Me le laverò cento volte al giorno” borbottava spesso come tra sé e sé, mentre, sotto un sottile filo d’acqua, le sue mani scivolavano ritmiche, una sull’altra, intrise di lisciva.
Così come spesso assistevo all’operazione lavaggio delle mani, con il naso che arrivava appena al lavandino, e sapevo che questo rituale era dovuto sì al rispetto che lui aveva di se stesso, ma soprattutto al rispetto per la sensibilità olfattiva di mia nonna che lui tanto ha amato per tutta la vita, altrettanto spesso assistevo a molte delle sue operazioni manuali o creative: dalla costruzione delle casse per spedire le sculture, usando le stecche delle cassette della frutta, all’applicazione, con legno e cemento, dei tasselli nei muri per appendere armadietti, dalla preparazione meticolosa della cacciagione per la frollatura, fino, dopo un preciso numero di giorni, alla magia culinaria di lepre alla cacciatora, spiedini di lodole, fagiano lardellato allo spiedo, ecc.
Babbuini – 1920 – Roma – Quirinale
Ma soprattutto lo guardavo modellare cera e plastilina in tutte le fasi del lavoro. Dopo qualche cosiddetto “scarabocchio” dai rapidi tratti ovaleggianti, fatto quasi di nascosto, su piccoli brandelli di cartone grigiastro o di sacchetto strappato, giusto per stabilire (come mi spiegò in seguito) andamento, ritmo, masse e tensioni. Lo vedevo vieppiù diventare un tutt’uno con l’idea che andava formandosi nella sua persona tutta. Ridacchiava o tratteneva il fiato che usciva poi sibilando leggermente e a lungo.
Rapidamente metteva giù le masse, su armature di ferri piegati a mano, essenziali e perfette, dando loro immediatamente slancio, potenza e vitalità, alle quali ecco che ridacchiava. Poi però le cambiava senza paura, con la consumata sicurezza di un giocoliere o di uno stregone, così ispirato da fondersi col prodotto della sua modellazione. La forma scaturiva dai suoi gesti forti, potenti, sicuri con suo sommo divertimento. E a me sembrava la cosa più naturale del mondo, tanto che lui guardandomi di tanto in tanto da sopra gli occhiali, mi ricordava che “fare così gli è difficile”. ” ‘un s’impara all’Acquademia”. Invece quando non modellava, magari in cucina a spennare cacciagione, mi diceva che s’impara nei boschi, tendendo agguati, imitando i versi degli animali (che sapeva imitare tutti), studiando le loro tracce e abitudini, o magari si impara davanti alle gabbie dello zoo (lui diceva zu all’inglese) con plastilina, cavalletto e du’ stecchi.
Daini – 1920 – Roma – Quirinale
“Per fare gli animali bisogna saper vedere e disegnare e modellare molto in fretta. Gli animali non posano a comando, con loro bisogna saper trovare l’ “attimo” e saperlo sfruttare tutto, assimilarlo, distillarlo. E poi bisogna piacere agli animali: so cosa vuol dire passare le ore davanti ai soggetti senza rubar loro l’immagine con mezzi tecnologici, ma permettendo invece che ce la regalino loro a poco a poco. L’anima degli animali”.
Una delle caratteristiche più evidenti e costanti della sua opera è che i suoi animali non sono quasi mai ritratti in momenti di aggressività o di furia, ma sempre nel gioco, nella famiglia o nella beatitudine di una grattatina.
La casa dove vivevamo tutti insieme era piena di animali di bronzo, scuri, lucidi, impreziositi da giochi irregolari di pelami o piume o scaglie, oltre che vivi, mossi, attenti, personalizzati. Li conoscevo a memoria anche perché in qualche modo passavano tutti di là.
Gufo – 1920 – Firenze – Pal. Pitti
Spesso capitava, data la durezza dei tempi, che arrivasse persino a formare in gesso le sue sculture da solo, in bagno. Quando questo succedeva era per me festa grande, anche se vedevo la nonna e la mamma preoccupate per la confusione che avrebbe fatto in bagno col gesso. Ma lui, nonostante i timori delle donne, era pulito, preciso, sintetico, così come i gessi che gli uscivano dalle mani (con tutti quei procedimenti che poi ho continuato ad amare tanto), precisi e impeccabili nella struttura, sintetici e puliti nell’equilibrio grafico delle masse e delle pieghe principali.
Una volta, quando vidi alcuni di questi gessi finiti e pronti da portare al fonditore, chiesi: “perché questo l’hai fatto tutto liscio senza peletti o ricciolini o piume ?” rispondeva: “queste sono solo le masse: mi ci divertirò quando sarà in cera”. E quando il bronzo tornava dalla fonderia era davvero molto diverso dal gesso.
Fin da piccola lo ascoltavo parlare d’Arte e di tutti gli artisti che aveva conosciuto, concludendo sempre: “l’artista l’è com’il maiale, bono dopo morto”.
La carezza – 1912 – Firenze – Pal.Pitti
Uomo di poche parole e anche un po’ burbero, non risparmiava però le parole di apprezzamento per le sue sculture (come se non le avesse fatte lui) e per la nonna.
Era orgoglioso della nonna quanto era orgoglioso delle sue sculture, e del resto erano due cose per lui interdipendenti. Fu difatti per amore della nonna che lui scelse di modellare animali piuttosto che figure umane, come era ovvio che un giovane scultore si mettesse a fare a quei tempi: evitava così la frequentazione di modelle, studi d’arte, salotti, facendola felice.
Del resto lei era molto bella: bionda, con occhi azzurrissimi, carnagione dorata, vita sottile, ampio petto e lunghe gambe, il tutto distribuito in proporzioni e colori molto nordici su un metro e settanta di statura, che a quei tempi era rispettabilissima per una donna.
Il suo aspetto era all’antitesi, ma compensava perfettamente quello del nonno, definito dal suo amico Ojetti come perfettamente italico a cominciare dalla sua testa bruna dal perfetto ovale Brancusiano, al suo fisico snello e agile, muscoloso ma minuto, ai suoi lineamenti fortemente sensitivi e mimici.
Tutto di lui era ovale: la testa e ogni segmento del suo corpo; le sue mani, la sua gestualità (linee tracciate nell’aria creando strutture, masse); le linee compositive delle sue sculture e dei suoi ‘scarabocchi’. Di una donna bella diceva “ha delle belle masse”. Se poi le masse erano ben distribuite o messe nel posto giusto, era il massimo.
Lepre a covo – 1910 – Firenze – Villa i Tatti – collezione Berenson
Quante volte ho ascoltato la loro storia d’amore e immaginato di vederli giovani a ‘quei tempi’ così come ora li vedevo vecchi, ma ancora belli, ancora uniti, ancora innamorati e assolutamente inseparabili.
Era rimasto orfano di tutti e due i genitori a 16 anni, coi suoi due fratelli, una sorellina e un cospicuo patrimonio. A 18 anni si innamorò della nonna, un bel po’ più grande di lui, e, per evitare scenate coi fratelli, scappò con lei a Londra dove rimasero alcuni anni durante i quali, oltre a mettere al mondo la loro prima figlia, il nonno poté quotidianamente frequentare lo Zoo con risultati strepitosi, entusiasmanti. Si divertiva perché continuava l’apprendimento, l’appropriazione sensoriale del mondo animale, che aveva iniziato da piccolo con suo padre e suo fratello grande, andando a caccia nelle loro terre.
Li vedevo invecchiare, come capita a tutti i nonni, ma soprattutto li vedevo tutti i giorni perché vivevamo tutti insieme coi miei genitori nella stessa casa di cui ero l’unica bambina, e nei lunghi inverni milanesi tra il ’45 e il ’55 il tempo da passare coi nonni è stato moltissimo. Inverni scanditi dal secchio del carbone, dal giornale radio ascoltato in rigoroso silenzio, seguiti per fortuna dalle primavere, estati e autunni in cui si stava comunque molto tempo insieme. I ritmi erano scanditi dall’arrivo periodico di olio e vino dalla Toscana che erano di pertinenza del nonno, come pure quasi tutte le telefonate, le spedizioni, gli arrivi di casse, le mostre, le Accademie, i viaggi dai quali tornava, se era passato dalla Toscana, con preziose formine di pecorino del pastore o finocchiona o salame toscano altrettanto rari.
Pantera (marmo) – 1930 – Roma – GNAM
Il patriarca era lui, Nonno Sirio dal magico nome siderale, a quei tempi più unico che raro. E la Nonna Emma era la più grande madre che si sia mai vista, dalle cui sapienti mani aristocratiche uscivano i manicaretti che lui più amava, anche se ‘in tempo di guerra’, di cui sempre mi raccontavano, aveva dovuto imparare e assimilare abitudini di grande parsimonia e furbizia alimentare. Quotidianamente riuscivano tutti e due a trovare motivi di gratificazione reciproca. Io poi ero un tipo curioso, sempre a chiedere, a voler partecipare, a voler aiutare, e loro non mi mandavano mai via, così potevo aggrapparmi al bordo di qualche tavolo e assistere alle magie culinarie della nonna o a quelle scultoree del nonno.
Negli ultimi 15 anni della sua vita, siccome gli risultava difficile produrre grandi sculture in casa, ma soprattutto per una sorta di riavvicinamento ad un senso mistico più tradizionale, si mise a fare dei bassorilievi a soggetto religioso: il presepe con l’adorazione degli animali, S.Francesco col lupo di Gubbio, S.Francesco che predica agli uccelli, l’Ultima Cena, e poi Madonnine tenerissime e Crocifissioni drammaticissime.
Ho sempre saputo che avrei fatto anch’io un mestiere analogo, non solo per la sua influenza: anche l’altro mio nonno era scultore, il mio babbo architetto e ho anche avuto la fortuna di incontrare sempre tanti e grandi Maestri nella vita. Scelsi quindi fino da piccola di andare a Brera e ci andai: ma lì si usava la creta.. Quando nel corso dei miei studi, incontrai pitture rupestri o pitture Zen, riconobbi quei frutti sprizzati da un estro, una vivacità e una capacità di distillazione e di profonda conoscenza della materia, che ho sempre visto all’opera, inesauribili nel nonno.
Quando morì, ad un anno esatto dalla morte della nonna, io avevo 26 anni e tenevo tra le mie la sua mano destra ormai pulitissima.
Ho ritrovato l’odore della plastilina nel cassetto del tavolino al quale ha passato i suoi ultimi anni.
Oltre all’odore fortissimo conteneva tutte le fotografie dei suoi lavori, tutti i ritagli di giornale che lo riguardavano, tutti i suoi documenti, nessun disegno. Tutto lì, il resto me lo ricordo da sola.
Sandra Tofanari