Gli ultimi giorni del festival artistico Burning Man.
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di Sofia Cavalli
Il vino non è solo da pasteggiare con pietanze affini, ma è anche da accompagnarsi a letture altrettanto prelibate. Il medesimo, peraltro, lo si trova fra le parole della poesia e della prosa (poc’altro è più classico del vino, credo io). Talvolta diventa pretesto per ragionamenti di gravitas filosofica e di tensione esistenziale; sovente è associato al tema del carpe diem, del cogliere l’attimo di quest’esistenza fuggevole. Godere del vino e allo stesso modo della vita, misteriosa e ridicolmente breve. Bevi e fuggi le pene! Apri il cuore! Dedicati alle passioni terrene! – si è detto assai. Parafrasando Orazio, è male all’animo arrovellarsi troppo sul futuro. In una serena accettazione di quale che sarà, si versi il vino, senza aspettare il domani, ma facendo caso all’istante vivente. Infatti, il tema dell’hic et nunc – del rendersi presenti al qui ed ora- è sentiero piuttosto battuto (data anche la sua universalità).
E’ però interessante ricordare come il vino sia associato proprio a quel succedersi di baleni, come se si potessero bere a sorsate – e quindi contenere dentro- ognuno di quei lassi di vita vissuta. Penso anche ai versi morbidi e acri di ʿUmar Khayyām, poeta (matematico, astronomo e filosofo pure) della Persia medievale. Anche laddove l’invito a bere contraddice una certa e rigida interpretazione del Corano, nelle sue celebri quartine l’invito al bere è leitmotiv. Emerge quel male di vivere – che noi ben conosciamo dal Leopardi, al Montale e via discorrendo- che (forse) si cura proprio gettandosi a capofitto nel profondo delle sensazioni più terrene, delle quali il vino è elisir in grado di accrescerne la consistenza, finanche a sfiorare un senso di mistico appagamento.
Pur omettendo l’interessante excursus che si potrebbe fare sul fervore culturale policromatico dell’epoca d’oro dell’Islam, diciamo che ʿUmar Khayyām, da scienziato, vive quella trappola filosofica che è il senso della vita e della sua caducità, come un fallimento di Dio, un’incompletezza irrimediabile per la quale non varrebbe nemmeno la pena di nascere. Dice in incipit: “Se fosse dipeso da me il mio venire, non venivo/ E se da me dipendesse l’andarmene, quando mai me ne andrei?/ Era meglio se in questo diroccato convento/Non fossi venuto, né andato, né stato giammai.” Ed anche: “Hai spezzato la mia brocca di vino, Signore | Mi hai chiuso la porta del piacere, Signore | Io bevo ma sei tu che sembri ubriaco | Polvere sulle mie labbra! Sei forse ebbro, Signore?” . “Riempi il tuo cranio di vino prima che si riempia di terra” non è solo suggestione letteraria, ma icastico esempio di questo accostamento, di cui vi dico, fra il vino e l’illusione di poter assaporare meglio quel momento che cangia sotto la luce del tempo che passa.
Perché, potremmo chiederci, bevendo ci par di gustare il midollo stesso della vita? Perché le menadi solo agitando il tirso fanno sgorgare zampilli di vino che sono sorgenti di vita? La risposta potrebbe essere banale ma non va banalizzata. C’è un pessimismo cosmico, in quest’autore, che in un qualche modo mi rimanda al pensiero di Albert Camus: l’illogicità dell’esistenza rende sfuggente qualsivoglia legame inter-umano almeno tanto quanto lo sono i minuti dal proprio personale bagaglio di tempo. L’unico contatto possibile fra le persone, per Camus, avviene nell’avere un comune non-senso in questa vita assurda.
Tutto il resto è una fatica di Sisifo. Benché manchi in questo pensatore il materialismo cosmico di ʿUmar Khayyām, benché a lui nemmeno i piaceri terreni valgono di per sé a giustificare la nostra presenza nel mondo, Camus mi fa pensare ad una delle profonde ragioni per cui il vino ha questa fortuna imperitura nella storia dell’uomo. Il senso di solitudine e di finitezza – che pur è glassato dal nostro quotidiano affaccendarsi – di tanto in tanto (magari al fine di una giornata di lavoro) s’accresce e ci addolora, ma non in modo cosciente. Fa nascere in noi il bisogno di un non so ché di partecipazione, di comunione festosa, di compagnia significativa. L’ebbrezza in un qualche modo facilita il senso di aggregazione e di appartenenza che nella nostra vita normale fatichiamo a percepire intimamente. Seduti intorno ad un tavolo a brindare, si ha l’impressione di esserci, di evacuare l’alma dal chiacchiericcio della mente, di rilassarsi e partecipare per davvero alla vita propria ed altrui. Non voglio entrare nel merito dell’uso improprio del vino, come fuga, come reazione. E nemmeno nei particolarismi di cui è fatto il mondo.
Mi limito ad evidenziare come la libagione abbia da sempre significato il prender parte attivamente a qualcosa. Le origini affondano al culto religioso, ma lo scopo pratico della più profana bevuta in compagnia è una sorta d’implicito memento mori. E’ il degustare i piaceri che ci sono concessi, fermarsi un poco per godere dei minuti che passano su di noi, senza la sensazione che ci venga continuamente tolto qualcosa. Il vino ha questo potere, dunque, per quanto illusorio e ugualmente passeggero.
Ma è lì che risiede la sua fortuna nel tempo: andando ad escludere le più sopraffine tecniche di degustazione – che sono un diverso campo d’indagine- dobbiamo riconoscere che amiamo il vino anche per il dono di modificare la nostra percezione delle cose e d’acquietare i pensieri. Disse Albert Camus che andò nei boschi per ridurre l’esistenza ai suoi fatti essenziali, per distogliersi dal superfluo che non fosse vitale e per congedarsi ancora affamato da quelle tavole ricche imbandite ma prive di verità.
Ma questo è un livello di consapevolezza che pochi hanno voglia di affrontare… . Il vino non ha colpe, se effimero è il suo incanto. Qualora se ne faccia buon uso, è un altro modo per accedere alla gratitudine che ognuno dovrebbe provare costantemente per la meraviglia dell’essere adesso.