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Dicembre 5, 2015Buone notizie per i pazienti affetti da patologie cardiache congenite.
Dicembre 11, 2015Un’ esperienza unica non solo per gli spettatori e per le tematiche che ogni singolo paese presente ha voluto interpretare, ma anche per i giovani adetti che si sono confrontati magistralmente nei loro ruoli. Laura Carniello trae le conclusioni sull’ Expo 2015 ad un mese dalla chiusura e ci da una visone da dietro le quinte di questo evento.
by Laura Carniello
Il 31 ottobre 2015 e calato il sipario sull’ Esposizione Universale di Milano, la manifestazione internazionale che da maggio per sei mesi, ha attirato da ogni parte del mondo folle di curiosi affascinati dallo slogan “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Possiamo , dunque, cominciare a fare dei bilanci. Esperti e media si sono lanciati in resoconti dalle cifre esorbitanti, dilettandosi con statistiche, critiche, parole di plauso e ringraziamenti. Ma cos’ha significato questa kermesse per le migliaia di lavoratori e volontari che hanno dato vita ai 170 padiglioni rendendo possibile l’efficiente svolgimento delle attività quotidiane e la faticosa gestione dei voluminosi flussi di visitatori? Avendo lavorato come hostess per l’intera durata di Expo, posso dire con orgoglio che “Io c’ero” e offrirvi una mia personale retrospettiva sull’evento dal punto di vista di una insider. Lo faccio ad un mese di distanza dalla grande chiusura, lasso di tempo in cui ho potuto maturare riflessioni più oggettive sull’effettivo valore dell’evento e raccogliere, sull’album virtuale della mia esperienza, le testimonianze di molti altri “exponiani”, condivise attraverso i media di tutto il mondo, ma soprattutto tramite i social. Emozioni, nuovi legami, ricordi comuni e una grande nostalgia, sono il lascito di un’avventura intensa vissuta in un contesto ovattato, un non-lieu sullo stile parco dei divertimenti per molti visitatori, una seconda casa per la maggior parte di Noi.
In qualità di principali intermediari con i visitatori, allo staff è spettato il delicato compito di fare gli onori di casa, accogliendo, in presa diretta, commenti positivi e negativi sui singoli padiglioni e su aspetti organizzativo-logistici dell’intero sito espositivo. Tra i principali appunti spiccano per popolarità frasi del tipo: “questa sembra più un’esposizione sull’architettura e la tecnologia che una fiera sul cibo”, “bellissime le strutture esterne, ma deludenti e fuori tema le esposizioni interne” oppure “credevo ci fossero più degustazioni, qui ci sono solo video”. Nonostante la loro contestabilità, queste affermazioni non sono totalmente prive di fondamento, ma attribuibili, innanzitutto, ad una scarsa e ingannevole informazione pre-evento. Il messaggio che veniva maggiormente trasmesso nei mesi anteriori al primo maggio era, che si sarebbe trattato del più grande evento sul cibo mai realizzato prima, ma sarebbe bastato invitare il pubblico a consultare il sito di Expo per non incorrere in aspettative non corrisposte. La prima pagina del sito web, infatti, descrive la manifestazione in termini precisi: “Per sei mesi Milano si trasforma in una vetrina mondiale in cui i Paesi mostrano il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del pianeta e dei suoi equilibri”. È chiaro, quindi, che l’enfasi era stata posta, in primo luogo, sull’ambiente in cui viviamo e sulla sua sopravvivenza, senza la quale non saremmo qui a parlare di cibo e alimentazione. Inoltre, non dimentichiamo che tra il concetto di alimentazione e quello di cibo inteso come “gastronomia” non vi è una totale coincidenza, anzi il secondo termine può essere assimilato, come sottocategoria, al primo ambito. Tra le quattro aree tematiche stabilite come guida all’evento occupava il primo, indiscusso posto la parola chiave “sostenibilità”, ricorrente nelle presentazioni di molti padiglioni. Uno sviluppo sostenibile è, infatti, l’unica via per nutrire e salvaguardare il Pianeta che, a sua volta, ci mantiene in vita con le sue ricchezze. I partecipanti alla manifestazione hanno, quindi, raccolto la sfida, riflettendo sui problemi contingenti all’area di provenienza e proponendo soluzioni all’avanguardia, in linea con le esigenze della popolazione e nel rispetto dell’ambiente circostante.
Si può affermare che Expo 2015 ha fatto tesoro degli insegnamenti della precedente esposizione universale, Shanghai 2010, presentando strutture dall’indubbio valore architettonico, frutto del contributo artistico di eccellenti progettisti di fama mondiale; forme intriganti ed imponenti, realizzate con materiali ecologici e, quindi, il linea con i requisiti e i contenuti dell’Esposizione, hanno sollecitato e soddisfatto l’occhio critico di milioni di visitatori, invitandoli ad esplorarne gli interni. Contemporaneamente, le tecnologie all’avanguardia sfruttate per l’interattività, la funzionalità e l’efficacia degli spazi espositivi nei singoli padiglioni hanno anticipato l’idea di progresso tecnico-scientifico, che sarà al centro delle prossime Esposizioni Universali, quella kazaka sulle energie rinnovabili (Astana 2017) e quella, attesissima, di Dubai 2020, “connettere le menti, creare il futuro”.
Partendo dalla premessa fondamentale che non si è trattato di un’enorme fiera campionaria d’arte culinaria, ci si può ora concentrare sull’indagine delle diverse, infinite tematiche connesse al cibo inteso come nutrimento per l’uomo, per il Pianeta, ma anche come prodotto di un’attenta salvaguardia delle risorse e del loro accorto e intelligente sfruttamento. La nostra terra offre tanto, anche le zone più impervie nascondono tesori nascosti, sta all’ingegno umano scoprirli e ricavare, dalla sempre più evoluta conoscenza tecnica-scientifica, gli strumenti per rispondere alle più grandi insidie che ci offre il Pianeta.
In particolare, Expo 2015 ha consentito ai partecipanti di affrontare tre precise aree tematiche, oltre al filo conduttore della sostenibilità: l’area antropologica, ovvero l’indagine del rapporto tra l’uomo e il cibo, come prodotto rappresentativo di una dato contesto socio-culturale, la sfera agricola-alimentare e la moderna disciplina della sociologia urbana, che studia come strutturare gli ambienti in relazione all’incalzante sviluppo socio-culturale, in modo da garantire il mantenimento di alcune costanti necessarie alla preservazione dell’ambiente e del genere umano. Queste linee guida sono state ampiamente seguite dai Paesi aderenti, che ne hanno sviluppato le numerose declinazioni e sotto categorie.
Personalmente ho trovato che i padiglioni più coerenti e originali, in quanto a contenuti, siano stati Gli Emirati Arabi, il Qatar, la Colombia, l’Argentina, Israele, il Marocco, la Corea del Sud e Save the Children, che hanno rappresentato al meglio le insidie, le ricchezze, le problematiche (con relative soluzioni) e le potenzialità della propria realtà territoriale. Tutti questi allestimenti sono stati accomunati da un’enfasi particolare e da un palese impegno verso il non esaurimento e la distribuzione omogenea delle risorse.
Il Qatar, a capo della Global Dryland Alliance, ha offerto un ampio spettro di tecnologie con cui è possibile affrontare la minaccia incalzante della desertificazione di parte del Pianeta, condividendo le proprie scoperte scientifiche, come quella della desalinizzazione per osmosi, con gli altri Paesi dell’alleanza, gli Emirati Arabi in primis. Gli Emirati Arabi hanno insistito, a loro volta, sul tema della trasformazione del paesaggio desertico in scenario urbano, sfruttando come espediente educativo il viaggio nel passato di una giovanissima cittadina di Dubai. La piccola Sara, nata e cresciuta nel lusso di una città dorata, si ritrova catapultata tra le dune riarse che fino a poche decine di anni fa occupavano quello stesso suolo. Alla fine della sua avventura, la bambina invitava gli astanti a riflettere sul valore e sull’importanza del bene più prezioso sulla terra, l’acqua, nonostante gli agi della vita contemporanea ce la facciano spesso dare per scontata.
Sulla stessa linea d’azione si può collocare anche l’esposizione del padiglione Israele, un altro Stato geograficamente penalizzato e naturalmente limitato nella produzione alimentare. In questo caso, quello che traspariva era un forte messaggio: il ricorso alla ricerca scientifica, se sfruttato in maniera saggia, può far fruttare anche i territori più impervi. Simbolo degli enormi successi conseguiti da Israele in campo agroalimentare, è il pomodoro ciliegino, superstar del mercato ortofrutticolo mondiale. Ma il vero merito di questo Paese, più in generale, è quello relativo alla solidarietà e alla condivisione dei propri risultati, al fine di conseguire uno sviluppo sostenibile fondato sull’impegno congiunto delle diverse nazioni. Un esempio di progetto israeliano esportato all’estero è quello dell’irrigazione a goccia, in crescente diffusione.
Il mio personale oscar alla chiarezza e all’incisività dei contenuti va, invece, al padiglione della Corea del Sud, che si è concentrato sulla presentazione di uno schema espositivo semplice ma coinvolgente, strutturato in tre fasi: il primo spazio, tramite l’uso di installazioni artistiche, offriva il lato “malato” del contemporaneo rapporto uomo-cibo, quello dell’obesità e del junk food, il secondo spazio mostrava il prezzo di questa sproporzione alimentare, scolpito nel corpicino emaciato dell’ologramma di un bambino asiatico, mentre l’ultimo declinava il tema della tradizionale dieta coreana, l’Hansik, che con i suoi principi di varietà, conservazione e fermentazione fornisce sicuramente un ottimo modello di consumo.
Colombia, Marocco e Argentina, infine, mi hanno colpito per aver celebrato con gratitudine, nonché consapevolezza, la ricchezza di doni che offre la loro terra, i primi due in termini di convivenza di microclimi e coltivazioni eterogenei, l’ultima in quanto “fabbrica del mondo” ed esportatore internazionale di rilievo.
Per quanto riguarda Save the Children, l’unico padiglione non nazionale che ho inserito nella mia “top eight”, il suo percorso guidato, basato sulle storie di bimbi come Sarita, indiana, e Tarek, siriano, mi ha toccata nel vivo della mia coscienza. Punto di forza del piccolo padiglione sono stati indubbiamente i volontari, i quali avevano il delicato compito di illustrare con dedizione l’altra faccia della medaglia, quella legata alla malnutrizione infantile e alle carestie che stanno affliggendo diverse parti del mondo. Toccare con mano, nel vero senso della parola, gli strumenti che permettono loro di intervenire in queste zone, salvando la vita a milioni di persone, mi ha fatto aprire gli occhi su quanto poco basterebbe per cambiare le cose, per eliminare quella che, nel 2015, è ancora la prima causa di decesso nel mondo: la Fame. Osservazione banale? Direi di no, visto che si tratta di un percorso che è ancora nella sua fase iniziale di sviluppo. La presenza dell’onlus ad Expo, infatti, ha avuto come scopo principale la raccolta di firme per una petizione da sottoporre al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, per far sì che, entro il 2020, ci si impegni ad eliminare tutte le cause evitabili di mortalità infantile (mancanza cibo, polmonite, malaria ecc.).
Una cosa è certa, la parola d’ordine di questa Esposizione Universale è stata il dialogo tra Paesi, che si è concretizzato nella stesura della Carta di Milano, i cui punti fondamentali, basati sui pilastri di “diritto al cibo”, “consapevolezza”, “educazione” e “impegno”, erano impressi su drappi affissi lungo tutto il Decumano, il viale principale di Expo, a sottolineare il loro valore di pubblici memoranda sociali. Incarnazione dello spirito di collaborazione sono stati invece i Cluster, le aree tematiche che, per la prima volta nella storia di Expo, non riunivano paesi affini solamente per vicinanza geografica, ma anche territori nazionali tra loro molto distanti, caratterizzati dalla produzione autoctona di un medesimo alimento, dal caffè al cacao, dal riso ai legumi, o da simili condizioni climatiche. All’interno di questi spazi, dotati di superfici comuni, nonché di palchi per la conduzione di cooking show, degustazioni e conferenze, era possibile percepire un’atmosfera vibrante, di coesione, in pieno equilibrio con i valori dell’Esposizione di Milano. L’ampia corte centrale del Cluster del Bio-mediterraneo, ad esempio, si è distinta, per popolarità, come una delle zone più attive nell’organizzazione di eventi, grazie al contributo positivo e alla coordinazione armoniosa dello staff di tutti i padiglioni inseriti nell’area, come la Sicilia, l’Egitto, la Grecia, il Libano e l’Algeria.
Dopo questa riflessione sui significati e le complesse declinazioni delle tematiche di Expo 2015, non posso che introdurvi alla scoperta del padiglione Vanke, dove ho potuto vivere da protagonista l’esperienza Expo. Vanke, o meglio Wanke (in mandarino) è la più grande azienda del settore immobiliare cinese e, per questo motivo il padiglione sorgeva nell’area dedicata ai privati. Per Vanke, questa primissima partecipazione ad un’Esposizione Universale estera è stata una vetrina internazionale fondamentale. Dopo il suo contributo a Shanghai 2010, il colosso cinese ha voluto affidarsi ad eccellenze di rilievo mondiale per la realizzazione di quello che rimarrà nei ricordi di tutti i visitatori come “il padiglione dalle piastrelle autopulenti”. La struttura, composta da uno spazio espositivo principale al piano terra, un mezzanino per accogliere le visite vip e una spettacolare terrazza panoramica, con vista diretta sull’albero della vita e sul padiglione Italia, è stata progettata dall’equipe dell’architetto americano Daniel Libeskind, artefice del museo dell’Olocausto di Berlino e del Ground Zero Memorial. Un attento studio della filosofia e dell’arte cinese, in particolare della pittura di paesaggio, la cosiddetta shanshuihua, hanno portato l’architetto ad adottare uno stile diverso dalle sue precedenti opere, ricorrendo all’uso di forme morbide, flessuose e circolari, in sintonia con lo spazio esterno, la cui fusione ha dato vita a un capolavoro dalle fattezze serpentiformi. Le linee di tale architettura volevano richiamare, infatti, la coda di un dragone acciambellato, ma, al contempo, il suo profilo poteva essere inteso come la riproduzione di un monte nello stile del shuanshuihua. Questa seconda visione veniva rafforzata dalla presenza di un percorso esterno di salita e discesa, che permetteva di raggiungere la terrazza. Unico elemento geometrico della composizione erano le piastrelle quadrate in gres porcellanato, realizzate dall’azienda emiliana Casalgrande Padana, magistralmente posizionate secondo inclinazioni diverse a comporre l’effetto a scaglie delle pelle di un drago. La particolarità di queste mattonelle cangianti consiste nella tecnologia all’avanguardia che permette, attraverso le proprietà dell’invetriatura metallizzata che le ricopre, di purificare l’aria circostante. Tale caratteristica, e più in generale l’intera struttura del padiglione, hanno affascinato non poche persone, attirando sempre più numerosi gruppi di visitatori. Grazie al prezioso contributo dello studio Libeskind, Vanke ha potuto esprimere al meglio il legame con la propria terra e con la sua cultura ancestrale.
Se l’aspetto esteriore del padiglione ha sortito l’effetto desiderato, fungendo da calamita per il pubblico di Expo, i contenuti offerti dall’installazione interna, ideata dalla Ralph Applebaum Associates, non erano certo di minor spessore. Varcato l’ingresso l’osservatore si ritrovava in uno spazio dominato da un’impalcatura di bamboo intrecciati, supporto congeniale di duecento schermi quadrati e simbolo astratto della tematica presentata, quella della mensa, shitang in cinese, intesa come condivisione del cibo a livello sociale. In questa prospettiva, l’unione delle canne di bamboo diventava l’emblema dei legami familiari e dell’interazione sociale, che si rafforzano durante il momento del pasto. Il video trasmesso sugli schermi, un filmato di dieci minuti ricavato da un lungometraggio sulla Cina contemporanea, offriva uno spaccato di vita quotidiana, mostrando alcuni aspetti significativi della realtà del Paese. Le scene chiave del cortometraggio ruotavano attorno a tre delicati temi: la migrazione dalle campagne verso le grandi metropoli, come Shanghai, che viene riportata come esempio di città frenetica nel video, la sempre più rapida urbanizzazione del territorio, e, infine, quello che è il leit motif dell’esposizione, ovvero “costruire una comunità tramite il cibo”. Il fenomeno della migrazione interna cinese, e il conseguente crescere del divario economico tra le zone rurali dell’entroterra e quelle industrializzate della costa sud-orientale, è rappresentativo di un Paese che sta ancora lottando per affermarsi come superpotenza nel mondo. Lo stile di vita diametralmente opposto con cui si devono confrontare i migranti nel nuovo contesto, spesso fonte di disagio sociale, è reso attraverso la giustapposizione di due ritmi all’interno del filmato, uno lento e cadenzato, accompagnato dal susseguirsi dei suoni della natura e di immagini bucoliche, l’altro serrato, incalzante, irregolare, inframmezzato dai rumori assordanti della caotica e brulicante Shanghai, ripresa nell’arco di un’intera giornata. Il primo è un inno alla quiete campestre, ai tradizionali principi culturali cinesi, ma anche un richiamo all’armonia sociale, ravvisabile nelle scene dedicate all’arte culinaria cinese e al momento di massima convivialità del banchetto familiare; il secondo scandisce i fotogrammi di una metropoli ricettacolo dei rapidi cambiamenti socio-culturali di una Cina nuova, in piena crisi di identità. Con la realizzazione di questo padiglione, Vanke ha agito contemporaneamente su tre fronti. Per quanto riguarda la fase di progettazione e costruzione, ha scelto di aderire al principio dell’ecosostenibilità, supportando la sperimentazione di forme e materiali innovativi. Concettualmente parlando, invece, ha optato per la mediazione tra elementi della tradizione e un’attenta riflessione sul tema dell’evoluzione della società cinese in relazione al cibo, inteso come mezzo per ritrovare l’equilibrio sociale, rinsaldare i legami umani e favorire la conoscenza reciproca all’interno di contesti urbani sempre più ampi, dinamici e in continuo rinnovamento.
Infine, creando una sintesi tra supporto simbolico e installazione mediatica, ha voluto offrire ai visitatori un’intensa esperienza sensoriale all’interno di una foresta virtuale, uno spazio privo di ripartizioni, pervaso da schermi quadrati che richiamano l’idea di una frantumazione in pixel. La pluralità di tali elementi è stato un espediente tecnico in grado di raccontare le diverse sfaccettature di una storia, una storia reale che incrocia i destini comuni di milioni di cinesi, e di definire un rapporto di empatia con i protagonisti del filmato, sui cui volti campeggiano espressioni di malinconia e tristezza, per l’abbandono delle proprie radici rurali, e di speranza, per l’inizio di una nuova vita.
A conclusione di questo viaggio postumo attraverso i miei padiglioni preferiti e di una serie di osservazioni generiche sullo svolgimento e i significati dell’Esposizione, è giunto il momento di trarre le somme. Expo 2015 è stato un successo? Considerando quanto osservato finora, oltre che la lunga lista di cifre da record che ha caratterizzato, in particolare, gli ultimi due mesi della manifestazione, la risposta è un deciso “Si!”. Ponendo l’enfasi sul ruolo formativo e divulgativo dell’evento, se sono la coerenza e la varietà tematica ad essere adottate come principali elementi di valutazione, allora non ne si può negare l’assoluta riuscita.
Questo, e molto altro, è quanto mi ha lasciato il mio impatto personale con Expo, il mio modo di vivere con occhi vigili, orecchie attente e cuore aperto sei mesi di lavoro in un ambiente palpitante di input educativi e stimoli alla riflessione, oltre che di tentazioni culinarie. Sei mesi a stretto contatto con un pubblico internazionale, con il delirio di folle incontrollabili, ma soprattutto sei mesi che ho avuto la possibilità e l’onore di condividere con i miei colleghi del padiglione Vanke, senza il cui supporto non avrei retto la tensione e la stanchezza fisica che un evento di tali proporzioni, può comportare. La conclusione di questo articolo la voglio dedicare proprio ad ognuno di loro, con la speranza di poterli rincontrare, rievocando assieme i momenti, le risate, le feste, e i ricordi di quei giorni: grazie ragazzi per aver reso quest’esperienza indimenticabile!